Sappiamo qual è il prezzo di una raccolta abusiva di testi critici marxisti, come quelli incessantemente riproposti su queste pagine: il prezzo del fallimento. O per lo meno del fallimento momentaneo (dell’oblìo al limite). Nessuno dei testi così raccolti ambisce al “successo” (terribilmente sfigurante). Ma ad ogni tappa di questo lungo viaggio-processo (mentale), del fallimento abbiamo la preveggente consapevolezza quando noi persistiamo nel confidare nella proposta di una critica altra (radicale nel suo farsi e proporsi) e strutturalmente poco attraente nelle forme dell’apparenza. Tuttavia, essendo noi amanti delle locuzioni dialettiche, ci atteniamo alla constatazione che la “critica” (integrata) odierna è sempre favorevole alle strutture attuali (conservatrici), anche se di significato anti-democratico [<=], e sempre contraria, nei fatti, alla sperimentazione e alla ricerca di nuove relazioni, anche se di significato apertamente democratico. Le sue esigenze di “costume” e “morale” – come dire? – compartecipanti, annientano tutta l’essenza della critica: la critica integrata, cioè, si illude di produrre nella società demente nuove proporzioni umane, e funziona come una Maga Circe al contrario: trasforma le bestie (sociali) in uomini; così facendo, la critica integrata, più che nuove composizioni collettive, riproduce solo la demenza (e se stessa, come complice della demenza). La sua esortazione al “cambiamento” è semplicemente spinta da una immensa ambizione alla propria istituzionalizzazione.
Se, come la storia suggerisce, ogni società costruisce e tende a codificare un proprio sistema coerente di mistificazione – per riempire il “vuoto” di consenso che potrebbe aprirsi con l’acuirsi della crisi generale del capitale nella sua forma democratica – le aspettative della critica integrata, e le sue possibilità di successo (nel riempire quel “vuoto”, intendiamoci), crescono. È proprio a partire da quel “vuoto” che si rende possibile, per la critica integrata, un suo possibile insediamento (passivo, plaudente) nelle forme immediate (storico-determinate) della comunicazione. È vero, insomma, che le debolezze della critica integrata stanno nei compromessi (teorici e pratici) con il dominio del capitale democratico, da essa inteso, ancora, come il migliore dei mondi possibile: servitrice dell’altare, si danna l’anima nel tentar, con l’anfora adeguata, di spegner le fiamme del conflitto confondendo con stereotipi. La stabilità di dimora, del resto, ha sempre interessato la critica integrata, e dunque la comunanza con lo stato di cose ha dato alla stessa la possibilità di realizzare l’abbandono dello scomodo dell’utopia, andando incontro, con incitamenti vocianti ed ambigui, allo spronare, nel “dopo-muro”, di fantasiose “apologie dell’esistente”.
Anche questa volta il nostro è un fallimento non voluto, obbligato; il non far parte, noi, di tale critica, ci vede trascinati nell’odiato mondo del capitalismo senza esserne attratti. Ma la prigionia (sociale) non sprona la nostra immaginazione a fuggire verso i territori rigogliosi (e ricchi) dell’integrazione, per quanto allettanti restino quei canti di sirena, né, tanto meno, di ripararci nei territori isolati della “pratica specifica”. E, per colmare la misura del nostro odio (odio di classe, e per ciò fuori moda), intendiamo qui esprimere con chiarezza i fondamenti di una critica non integrata:
- la critica (teorica e pratica, mentale e fisica insieme) è la coscienza [<=] della necessità-possibilità del balzo in avanti; ciò significa: a) essa non è qualcosa per sé (lavoro fine a se stesso, “puro”) ma parte integrante di un processo reale, di un “movimento”, più esattamente: di un’azione, l’azione della “classe oppressa”, del “proletariato”; b) è parte peculiare di questo movimento, qualcosa di particolare all’interno di questo tutto.
- la critica è, secondo il suo contenuto, innanzitutto il prodotto della considerazione dei conflitti di classe e dell’anarchia della produzione; secondo la sua forma, riferimento (trasformazione, elaborazione) di materiale mentale precedentemente trovato.
- la critica è dialettica (e non metafisica) in quanto concepisce il mondo (naturale, storico e spirituale) come un processo di sviluppo (a salti, per successione non lineare di momenti catastrofici) per il quale non può esserci alcuna verità assoluta.
- la critica è materialistica (e non idealistica), si pone cioè su un “terreno reale”, e non considera il divenire come “sviluppo di un’idea che esiste in precedenza”: è la realtà che determina; dove per realtà intendiamo: a) la produzione materiale come base dell’intero processo della vita sociale; b) la lotta di classe [<=] come forma dello sviluppo storico. [D’altro lato, la critica materialistica racchiude in sé, per così dire, la partiticità, imponendo una valutazione di ogni avvenimento l’accettazione diretta e aperta del punto di vista di un determinato gruppo sociale].
I caratteri specifici della critica (da delineare collettivamente nelle sedi opportune, di base in azione e di gruppi di studio) partono dal principio che impegna “a subordinare ogni conoscenza teorica al fine dell’azione rivoluzionaria [<=]” secondo lo schema prassi-teoria-prassi. Quando, la critica del guasto, nella sua scoperta e descrizione del Deserto, oltreché indicare la Barbarie, indica anche la sua negazione (il suo necessario tramonto), essa mostra, ai soggetti sociali “rivoluzionari”, i punti di rottura dove la loro leva può essere applicata nel modo più produttivo. Si tratta, insomma, di diffondere, tramite la critica non integrata, i processi di crisi [<=] e destabilizzazione del capitale.
[n.g.]